Ecologie sociali nella crisi climatica: tra enclave di attivismo e convergenze
Marco Palma

Premessa
La crisi climatica è quotidianità. Nel 2024 l’incremento medio della temperatura globale ha superato la soglia del grado e mezzo1, ovvero quella considerata dalla conferenza di Parigi come la più favorevole per limitare le conseguenze del riscaldamento globale. Che, a ogni latitudine, ma con intensità differenti, produce già catastrofi inimmaginabili fino a pochi anni fa: le drammatiche immagini di Valencia, con centinaia di vittime e la metaforica distesa di migliaia di automobili accartocciate l’una sull’altra, hanno reso evidente che l’apocalisse climatica, già realtà poco raccontata per una parte della popolazione più povera del Pianeta2, può diventare da un momento all’altro trending topic dei nostri social-network anche nei Paesi più ricchi, uscendo dallo schermo per trasformarsi in un batter d’occhio in virale vita reale.
Se la crisi climatica è qui e ora, i movimenti climatici che hanno attraversato la parte conclusiva dello scorso decennio non lo sono. Pandemia, congiuntura di guerra, crisi energetica, economica e finanziaria, hanno profondamente modificato il paesaggio a cui avevamo appena iniziato ad abituarci nel 2019, e quella moltitudine giovanissima che ha attraversato le piazze di mezzo mondo sembra essere (quasi) scomparsa dalla scena pubblica. La definitiva defezione delle istituzioni internazionali di fronte alla crisi climatica – pensiamo alla radicale trasformazione delle ambizioni europee, dall’essere il primo ‘continente carbon-neutral’ all’essere armato fino ai denti – e l’aperto negazionismo di alcuni governi nazionali, non è stata accompagnata da una rabbia crescente da parte delle collettività e delle soggettività che subiscono e subiranno le conseguenze del sempre verde ‘make profit first’, e le intrusioni – pur preziose e, in alcuni casi, vincenti – di nicchie di attivismo ecologista non scalfiscono la sensazione di inadeguatezza delle forme collettive di fronte alla sfida epocale posta dal riscaldamento globale. Nei territori più colpiti dagli eventi estremi, una politicizzazione della crisi climatica fatica a emergere dal fango che ha invaso migliaia di case, e la conta dei danni viene prevalentemente seguita da una logica riparativa, invece che da una radicalmente trasformativa.
Sotto le ceneri bagnate dalle piogge straordinarie, cova il concetto di giustizia climatica3, che però fatica a trovare le pratiche e le forme per esondare, e quella che alcune hanno definito ecoansia raramente si trasforma in ecorabbia.
La crisi climatica, un fenomeno sociale
«La maledizione della noce moscata»: è nelle pratiche coloniali che Amitav Ghosh colloca le radici della crisi climatica contemporanea; espropriazione e genocidio delle popolazioni native, lavoro schiavistico, depauperazione ambientale e devastazione delle biodiversità, messa a sistema di un network logistico planetario4: sono le caratteristiche che hanno permesso il commercio europeo della ricercata spezia, e che hanno posto le fondamenta di un sistema mercantile che nei secoli successivi si è sviluppato come capitalismo. Un processo, quello della rimodellazione di interi territori per estrarne profitti, che l’autore chiama terraformazione, e che ha rotto un metabolismo millenario tra nature e culture. Dalla noce moscata alle piantagioni, passando per lo spostamento in catene di milioni di umani, le enclosures, la caccia alle streghe, per arrivare fino alle estrazioni petrolifere a e quelle di dati, la frontiera dello sfruttamento si è spostata sempre più in là, alla costante ricerca di nature a buon mercato5. Attraversando con poche parole secoli di storia è facile vedere come «il cambiamento climatico ha le sue radici fuori dal reame delle temperature e delle precipitazioni, delle tartarughe e degli orsi polari»6, e ha invece tanto a che fare con le vicende delle nostre vite quotidiane, e le sue enormi ingiustizie.
Che il terreno della contesa sia quello della dimensione sociale della crisi climatica, è un fatto ormai ampliamente condiviso in larga parte dei movimenti ecologisti. Eppure, non possiamo non riconoscere criticamente che, «quando si tratta delle classi popolari, l'ecologia mainstream è più interessata alle cose cosiddette concrete, quotidiane: mangiare meglio, riscaldarsi meglio, avere accesso agli spazi verdi, soddisfare i bisogni primari. E plaude a quelle brave persone che sprecano poco e hanno una bassa impronta di carbonio»7.
Da questo punto di vista, il concetto di giustizia climatica – entrato stabilmente nel lessico delle mobilitazioni a partire dalle proteste di Copenaghen durante la COP15 del 2009, e diventato meccanismo di rottura con la governance internazionale sul clima a partire dalla COP24 di Katowice8 – ha ancora bisogno di trovare espressione concreta nelle pratiche dei movimenti ecologisti. La ‘cassetta degli attrezzi’ è ricca di strumenti, sedimentati in decenni di lotte sociali. Pensiamo, per citare alcuni esempi, alle riflessioni nate a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta intorno al polo di Porto Marghera, che tracciano un legame inscindibile tra fabbrica, urbano e nocività9, e che ritroviamo in tanti altri territori. O, per entrare nel XXI secolo, alle elaborazioni politiche durante il Genova Social Forum e, successivamente, alle esperienze delle mobilitazioni territoriali che hanno attraversato capillarmente la penisola nella forma dei presidi – alcuni tra i più noti sono quelli della Val di Susa contro la TAV, quello di Vicenza contro la costruzione di una nuova base militare statunitense, il movimento No Ponte a cavallo dello stretto di Messina10– che hanno intersecato orizzontalmente e verticalmente le tante complessità – i beni comuni, i processi democratici, la qualità della vita quotidiana, il rapporto con il sistema economico – dei territori nei quali si sono sviluppati; per arrivare, tornando sulla scena internazionale, ai Gilets Jaunes che in Francia hanno costruito un radicale ciclo di mobilitazioni in opposizione al tentativo di far pagare alle classi popolari la transizione ecologica11.
Un patrimonio di conoscenze, competenze, riflessioni in parte accantonato nella grande cesura prodotta dall’emergere delle mobilitazioni climatiche del 2018/2019, che ha certamente aperto la strada ad alcune innovazioni, e ha portato nelle piazze milioni di giovanissime in tutto il globo, ma che – nel suo inseguire un nuovo orologio dell’apocalisse, questa volta climatico – ha rotto alcune cinghie di trasmissione, confinando negli anni successivi la mobilitazione climatica in una dimensione settoriale, quella di coloro che sono spaventate dagli storici cambiamenti nel sistema geofisico del nostro Pianeta.

© Hung-Hsuan Chao/ Greenpeace
Limiti e opportunità delle mobilitazioni climatiche
Nel comprendere questo ‘confinamento’, probabilmente non è stato ancora analizzato fino in fondo il ruolo giocato dalla pandemia da Covid19, e dai conseguenti lockdown. Che hanno prodotto da una parte un’aspettativa andata totalmente delusa – “nulla sarà più come prima” – e, dall’altra, individualizzato il concetto di ‘cura’, recluso per lunghi mesi negli spazi domestici e percolato in questa forma negli attivismi climatici.
Potremmo leggere in questo senso la spinta all’individualizzazione di alcune modalità di attivismo, che guardano a una dimensione quasi messianica del preoccuparsi delle conseguenze climatiche, così come quelle forme che focalizzano intorno allo ‘star bene soggettivo’ la discussione sui repertori di azione e mobilitazione. Ma, anche, l’estrema volatilità dell’attivismo che registrano le collettività che negli ultimi anni hanno dato vita a network internazionali di mobilitazione, come Fridays for Future ed Exctinction Rebellion. O la tendenza a privilegiare il terreno dell’azione diretta – che ha bisogno di un alto grado di consapevolezza individuale, ma non necessita di una forte processualità collettiva – lasciando però in secondo piano quello della costruzione di infrastrutture sociali capaci di produrre movimentazioni di massa che, pure, erano state ‘l’atto di nascita’ di Fridays for Future12.
Le azioni dirette non rappresentano, naturalmente, un ‘livello inferiore’ delle mobilitazioni politiche. Anzi, sono parte costituente del farsi soggettività politica, e sono spesso determinanti nell’individuare le contro-parti e nell’aprire uno spazio di contesa con esse. La loro efficacia, però, è spesso direttamente proporzionale alla capacità di chi le conduce di muoversi all’interno di un più ampio spazio di consenso sociale. I movimenti territoriali di cui abbiamo accennato nel paragrafo precedente hanno ben delineato questo aspetto, con azioni che hanno preso di mira cantieri e infrastrutture in un contesto di ampia mobilitazione popolare contro i progetti che contestavano. Nell’adozione della forma prevalente dell’azione diretta nei movimenti climatici, invece, appare rilevante soprattutto la crescente necessità di prendere parola in un contesto sempre più arido. Da una parte una «presa d’atto che la dimensione oceanica degli scioperi globali non è stata sufficiente a produrre il cambiamento sperato nelle politiche climatiche»13; dall’altra l’insufficienza nel tenere alta l’onda della mobilitazione.
La crisi pandemica, il ritorno della guerra e del riarmo come aspetti della quotidianità, e le loro conseguenze sulle società, hanno giocato un ruolo molto pesante in questo riflusso. Ma anche i meccanismi organizzativi delle forme politiche che si sono affacciate nelle piazze a partire dalla questione climatica hanno contribuito in questa direzione. Fridays for Future, che pure ha portato nelle piazze italiane decine di migliaia di giovanissime, non ha costruito una stabile organizzazione politica nei territori, mentre la dimensione nazionale è stata più un terreno volatile di coordinamento che uno spazio di immaginazione politica: nelle sue assemblee, d’altra parte, ha giocato un ruolo importante «un arcipelago di partiti, associazioni e realtà di movimento preesistenti»14 che ha frenato l’emergere di una nuova leva di attiviste, che spesso hanno finito per portare il proprio impegno politico in altre organizzazioni, o hanno deciso di tentare la strada istituzionale candidandosi in liste più o meno civiche, mentre molte di coloro che hanno attraversato quelle piazze sono poi uscite dai meccanismi della mobilitazione. Extinction Rebellion, invece, ha incentrato la propria attività politica su tre richieste – “dire la verità”, “agire ora”, “decidere insieme” – e una strategia importate dal contesto britannico, che però hanno trovato molti ostacoli ad attecchire efficacemente nel contesto italiano, che ha una storia politica e sociale propria. La scelta acritica di fare proprie alcune rivendicazioni senza contestualizzarle ha portato il movimento ad avanzare richieste che, in alcuni casi, hanno subito i contraccolpi dell’assorbimento nei processi istituzionali tradizionali: la vicenda delle assemblee cittadine rappresenta in tal senso un buon esempio. Anche il modello organizzativo ha posto alcune limitazioni: per rispondere a una forma definita “sistema auto-organizzante”, infatti, Extinction Rebellion ha costruito le proprie pratiche su gruppi di lavoro – definiti anche “gruppi di affinità” – dotati di piena indipendenza, i quali sono in alcuni casi all’oscuro di quanto stanno facendo altri gruppi; una scelta che ha forse favorito l’auto-organizzazione, ma che limita la costruzione di un pensiero politico collettivo – di «un’ecologia organizzativa»15 sia interna, sia esterna – intorno al quale rafforzare un’identità sociale nella quale radicare, nel tempo e nello spazio, il proprio attivismo; questo, invece, resta in una dimensione prevalentemente individuale e si alimenta in una “cultura rigenerativa” che chiede «alle persone di prendersi cura di sé come parte del coinvolgimento»16.
Altre vicende – pensiamo a quella del parco Don Bosco a Bologna – hanno invece evidenziato le condizioni di efficacia dell’azione diretta di ottenere risultati concreti. La vittoria – il progetto che avrebbe dovuto essere realizzato all’interno dell’area verde è stato ritirato dall’amministrazione comunale – è legata alla capacità di diversi gruppi formali ed informali di affrontare il piano del praticare opposizione, mantenendo al contempo un ampio consenso sociale intorno alla propria lotta. Un risultato per molte imprevedibile, che però non è andato oltre i confini – seppur importanti – di quel parco. Chiedersi come mai una vittoria non abbia generato un’onda più alta di mobilitazione ecologista non è un esercizio di stile, ma una domanda fondamentale per provare a comprendere cosa in questi anni abbia funzionato, e cosa no. Nel caso della vicenda del parco Don Bosco abbiamo assistito a un convergere e un co-praticare che ha avuto la capacità di generare mobilitazione intorno a un obiettivo ben preciso e misurabile – salvare gli alberi e il parco – ma non ha trovato le forme e i linguaggi per costruire una riflessione sistemica capace di generare nuove forme di organizzazione nel campo delle ecologie.
In generale, nonostante le cesure con i meccanismi istituzionali di governance prodottesi già nel 2018 e 2019, e metaforicamente rappresentati dal blablabla e dal how dare you pronunciati da Greta Thumberg nelle assise internazionali che dovrebbero definire le politiche per affrontare il riscaldamento globale17, le mobilitazioni climatiche degli ultimi anni hanno continuato a situarsi prevalentemente nel solco della richiesta rivolta alle istituzioni di fare qualcosa, di produrre spazi di consultazione o co-deliberazione, e della conseguente denuncia della loro inazione e inefficacia. Nonostante la consapevolezza generalizzata sul fallimento della cosiddetta “transizione dall’alto”, queste mobilitazioni hanno in larga – ma non completa – parte replicato modelli e rivendicazioni che si rifanno a un ciclo di lotte significativo da un punto di vista numerico e importante sotto il profilo politico, che però – in un nuovo contesto di crisi sanitaria, congiuntura di guerra, e recessione economica – non ha raggiunto i risultati per i quali si era sviluppato, e ha anzi subito un veloce riflusso.
In questo contesto, va anche riconosciuto che i percorsi ecologisti sono quelli che con maggiore sforzo – ma, a oggi, con poco successo – hanno interrogato il concetto di giustizia climatica; il quale, radicandosi nelle dimensioni sociali della vita quotidiana, interseca – finora più da un punto di vista teorico che da quello delle pratiche – questioni come il diritto all’abitare, l’accesso a beni primari come cibo, acqua ed energia, la riproduzione sociale, la condivisione dei saperi, la definizione dello spazio pubblico, la qualità del lavoro. Da questo punto di vista, se l’azione dei movimenti ecologisti è stata finora inefficace nel costruire un terreno di pratiche di transizione dal basso, dobbiamo riconoscere che gran parte delle altre lotte e vertenze che in questi anni hanno attraversato lo spettro delle mobilitazioni sociali fatica anche a considerare la dimensione ecologica e climatica come uno dei pilastri intorno ai quali costruire la propria riflessione politica.
Ci sono, tuttavia, segnali che questi elementi critici possano essere riconosciuti e messi in discussione. Tra questi, non possiamo non citare l’esperienza plurale che si è costruita intorno al Collettivo di Fabbrica ex GKN18: da lotta operaia a riflessione sul ruolo della fabbrica – e quindi della produzione e del lavoro – nella crisi climatica. Un dejavù, per certi versi, che riporta al centro della riflessione il lavoro come forza che stravolge gli equilibri ecologici19, e che quindi nel suo esplicitarsi nella società deve trovare le forme per produrre una visione socialmente integrata del produrre. Ma, anche, una mobilitazione che interroga – attraverso il concetto di “convergenza”, con cui prova a praticare forme di «organizzazione ecologica»20 – la fatica del trovare i nessi delle tante dimensioni della vita individuale e collettiva; nessi che rappresentano l’oggetto inscindibile intorno al quale costruire una visione complessa e olistica del costruire pratiche politiche dal basso.
Non per caso, queste forme del costruire nuove narrazioni a partire dalla condizione del lavoro hanno trovato interlocutori in una parte dei movimenti agroecologici: l’esperienza ormai decennale di Mondeggi Bene Comune ha infatti posto alcuni punti per riflettere intorno alle pratiche quotidiane che possono costruire azione politica, mentre le mobilitazioni nello spazio urbano iniziano a declinare tempi verbali che richiamano la necessità di costruire nuovi metabolismi con i suoli, le acque, le biodiversità21. Appare particolarmente significativo che prospettive di questo tipo siano emerse anche grazie alla vertenza di un collettivo di fabbrica, intorno al quale si sono raccolte le più importanti esperienze di mobilitazione climatica. Perché, se è vero che la crisi climatica è un fenomeno sociale, non basta dire che “l'ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio”; è necessario anche cercare le parole e le pratiche per affermare che, soltanto attraverso una prospettiva ecologica, la lotta di classe può ricostruire quei metabolismi tra culture e nature interrotti a partire dalla maledizione della noce moscata22; metabolismi attraverso i quali costruire la capacità di generare movimenti più che sociali23. Resta, naturalmente, aperta una domanda: quali sono le ecologie organizzative capaci di garantire un terreno delle pratiche dal basso che non si rinchiudano in ‘enclave d’attivismo’, ma possano affiancare al terreno del fare dal basso quello del rafforzare e imporre spazi di contesa?
(c) Tim Wagner, EndeGelände
Note
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Copernicus, 17 gennaio 2025, Global Climate Highlights 2024, https://climate.copernicus.eu/global-climate-highlights-2024
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M. Kaika, R. Keil, T. Mandler, Y. Tzaninis (a cura di), Turning up the heat: Urban political ecology for a climate emergency, Manchester, Manchester University Press, 2023
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E. Leonardi - P. Imperatore, L’era della giustizia climatica, Napoli, Orthotes, 2023
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A. Ghosh, La maledizione della noce moscata parabole per un pianeta in crisi, trad. it N. Gobetti, Vicenza, Neri Pozza, 2022
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Cfr. S. Barca, Le forze di riproduzione: Per una ecologia politica femminista, Milano, Edizioni ambiente, 2024, e J.W. Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo: La fine della natura a buon mercato, Verona, Ombre corte, 2023
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A. Malm, Fossil Capital: The Rise of Steam Power and the Roots of Global Warming, London, Verso, 2016
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F. Ouassak, con V. Cirillo e N. Ferrante, Per un’ecologia pirata: ...E saremo liberi!, trad. it. V. Gennari, Napoli, Tamu, 2024
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Cfr. J. de Moor, M. De Vydt, K. Uba, M. Wahlström, New kids on the block: Taking stock of the recent cycle of climate activism, «Social Movement Studies», 20, 5, 2021, e E. Leonardi - P. Imperatore, L’era della giustizia climatica, cit
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L. Feltrin, Contro la nocività: Operaismo ed ecologia nel Lungo ’68, «Effimera», 21 aprile 2022, https://effimera.org/contro-la-nocivita-operaismo-ed-ecologia-nel-lungo-68/
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Cfr. rispettivamente: P. Imperatore - M. Andretta, Vent’anni di movimenti: Dalla globalizzazione al clima, «il Mulino», 3, 3, pp. 201-210; C. Sasso, No Tav: Cronache dalla Val di Susa, Napoli, Intra moenia, 2006; M. Palma, No Dal Molin: The Antibase Movement in Vicenza, «South Atlantic Quarterly», 111, 4, pp. 839-846; D. della Porta - G. Piazza, Le ragioni del no. Le campagne contro la TAV in Val di Susa e il Ponte sullo Stretto, Milano, Feltrinelli, 2008
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E. Leonardi - P. Imperatore, L’era della giustizia climatica, cit
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E. Leonardi, G. Arrighetti, F. Scirchio, 17 settembre 2019, Le macerie della COP25 e la speranza che viene dalle piazze, «Le parole e le cose», https://www.leparoleelecose.it/?p=37279
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Ibidem
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Ibidem
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R. Nunes, Neither Vertical nor Horizontal: A Theory of Political Organisation, London, Verso Books, 2021
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Principi e strategie sono presentati nel sito nazionale di Extinction Rebellion, e approfonditi in una sezione dedicata alle FAQ: https://extinctionrebellion.it/chi-siamo/domandefreq/ (consultato il 19 aprile 2025)
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E. Leonardi - P. Imperatore, L’era della giustizia climatica, cit
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D. Salvetti - G. Scancarello, Questo lavoro non è vita. La lotta di classe nel XXI secolo. Il caso GKN, Milano, Fuoriscena, 2024
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A. Gorz, La morale della storia, trad. it. L. Basile, Napoli, Orthotes, 2022
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R. Nunes, Neither Vertical nor Horizontal, cit
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A. Ghelfi, Come radunarsi attorno a un territorio. L'esperienza di Mondeggi, «Quaderni della decrescita», 4, pp. 152-156
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E. Swyngedouw, Circulations and metabolisms: (Hybrid) Natures and (Cyborg) cities, «Science as Culture», 15, 2, 2006, pp. 105–121
A. Ghelfi, La condizione ecologica, Firenze, Edifir edizioni, 2022